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L’età di Noè

L’età di Noè
L’età di Noè

Una coppia di anziani cade in una spirale di invecchiamento accelerato, che Gaspar Noé decide di osservare allungando il tempo il più possibile. Da questo dispositivo paradossale è nato vortice, oggetto cinematografico difficile da collezionare e lento da digerire. Stimolante.

Dov’è andato Gaspar Noé, il regista della violenza insensata, che ha immerso la sua macchina fotografica come nessun altro nelle viscere del mondo, alla ricerca di un’innocenza perduta o sepolta? Lui, come i personaggi del suo film, ha personaggi/miti invecchiati che gli piace mettere insieme grazie all’aiuto di due leggende della settima arte, Dario Argento e Françoise Lebrun, la cui origine – cinematografica – come professione li fa iscrivere per suggerire il suo desiderio di fare di questa coppia i suoi genitori cinematografici. Ha invece la buona idea di farsi interpretare il figlio da Alex Lutz: cercando di affrontare con la sua vita un tossicodipendente e guidandolo verso l’implacabile, è bravissimo.

Se il film può essere visto con una certa morbidezza, quasi ipnotica, la violenza è altrove. Nel rifiuto di combattere, probabilmente, o meglio nell’incapacità di essere se stessi. Che sia il risultato di un’aggressione fisica o dell’intrusione di un processo neurodegenerativo, questi coniugi, intrappolati in un passato così riccamente immaginato intellettualmente, sono separati dall’inizio. E questo, subito dopo una scena inaugurale che rievoca la poesia passata di Prévert e Carné, di a schermo diviso la cui visione bifocale illustra lo strappo e la sua irreparabile assenza. Come se Noé ci stesse dicendo che il lutto, abbondantemente evocato da Boris Cyrulnik all’inizio del film, è iniziato molto prima della morte, e soprattutto all’interno della coppia, quando l’uno e l’altro non si incontrano più.

Un po’ come lo schermo, emergiamo separati da questo Vortice in modalità lenta, indubbiamente impressionante nella messa in scena, intervallata da momenti profondamente commoventi e realistici, ma affascinata da una forma sperimentale esagerata e da un declinologo volutamente schematico. Dario Argento a un certo punto evoca il cinema come luogo più vicino all’esperienza onirica, per l’oscurità e l’immersione assoluta che comporta nello spettatore addormentato. Questo è forse ciò che manca al film, una capacità di farci dimenticare completamente un dispositivo che, sia per la sua sistematicità che per il simbolismo che evoca e manipola, a volte ci dà l’impressione di essere invitati a una mostra concettuale, più che al cinema . La sua durata – 2h20 – non aiuta.

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